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La Mindfulness Psicosomatica

Le ricerche internazionali negli ultimi trent’anni hanno rivoluzionato la visione medica e psicologica contribuendo ad una comprensione profondamente unitaria e psicosomatica dell’essere umano, ed evidenziando l’intima relazione tra aspetti fisici, emotivi e psicologici.

Candace Pert, la ricercatrice scopritrice delle endorfine e dei neuropeptidi, che ha coniato il concetto di “BODY-MIND”, sostiene che non è più possibile separare l’aspetto fisico dall’aspetto mentale, ma che “bisogna parlare di mente-corpo come di un’unica entità integrata”.

La PNEI – Psico Neuro Endocrino Immunologia, intesa come campo di ricerca,  rappresenta quindi un collegamento tra medicina e psicologia, con un modello mente-corpo che comprende la globalità dei processi fisiologici, emotivi, psicologici e comportamentali sociali intesi come un sistema organico e unitario.

Le neuroscienze attualmente rappresentano una delle più importanti aree scientifiche interdisciplinari che riuniscono psicologia, medicina, biologia evolutiva, genetica, informatica e filosofia della scienza. Le neuroscienze oggi studiano il sistema nervoso e la coscienza umana con strumenti e metodologie del tutto innovativi, trasformando così la vecchia dicotomia mente-corpo in una comprensione psicosomatica unitaria che permette una concezione sempre più articolata della complessità dell’essere umano.

Numerosi sono i contributi del modello mente-corpo come la psicofisiologia dello stress (asse ipotalamo-ipofisi-surrene) di Selye e Cannon, gli studi di Alexander e Dunbar sulle relazioni dei modelli psicodinamici sul sistema simpatico e parasimpatico, le ricerche di Ernest Rossi sulla psicobiologia dello stress, a partire dagli studi sugli effetti dell’ipnosi, e le scoperte dei neuro peptidi e dei neurotrasmettitori della Pert, che permettono di sviluppare la PNEI e di comprendere la profonda relazione che connette il sistema psichico, nervoso, endocrino e immunitario.

 

Dobbiamo parlare, quindi, di come la nostra unità mente-corpo sia costituita e capire in che modo la persona o un soggetto riesca a interagire e quali siano i fattori neuro- emozionali che entrano in gioco.

Seguendo le nuove prospettive del modello di interazione Bio-Psico-Sociale è possibile comprendere meglio i meccanismi psicoemozionali che modulano le nostre risposte neurofisiologiche e comportamentali.

Tale modello è stato coniato per la prima volta da George Libman Engel psichiatra statunitense (1977). Engel ha trascorso gran parte della sua carriera al Medical Center dell’Università di Rochester nello stato di New York ed è principalmente conosciuto appunto per aver formulato ed introdotto il modello biopsicosociale, una teoria generale della malattia e della guarigione.

Engel ha sostanzialmente contestato il pensiero secondo cui le cause di malattie sono da attribuire esclusivamente a modifiche misurabili di variabili biomediche e

la terapia o la cura della malattia consistono esclusivamente in interventi sulle variabili biomediche. Secondo Engel la nuova prospettiva del malato si deve muovere in altre direzioni e cioè:

  1. a) la necessità di considerare salute e malattia come due aspetti di una realtà che va capita unitariamente (la malattia come alterazione dell’omeostasi individuale, legata alle vicissitudini dell’adattamento);
  2. b) la necessità di cogliere la malattia non affidandosi esclusivamente ai parametri biochimici, perché da soli non danno conto della realtà e della complessità della stessa;
  3. c) la conseguente necessità di una cura che sia in grado di cogliere ed intervenire sui diversi aspetti della malattia.

 

“I confini tra salute e malattia, tra lo star bene e l’essere ammalati sono ben lontani dall’essere chiari e mai lo saranno”

“Un modello biopsicosociale capace di comprendere tanto il paziente quanto la malattia, potrebbe spiegare perché alcuni individui sperimentano come “malattia” condizioni che altri considerano soltanto “problemi di vita”, reazioni emotive alle circostanze di vita piuttosto che sintomi somatici” (Engel G., Science 196, 1977)

 

In passato la salute veniva considerata come se fosse equivalente alla malattia di un organo e quindi l’individuo veniva considerato semplicemente una composizione di organi. Questo ha determinato una grande spinta alla specializzazione che da un lato ha portato numerosi benefici nell’essere sempre più efficaci in certe patologie ma dall’altro purtroppo ha determinato un allontanamento dalla visione unitaria della persona.  Le scoperte della medicina a partire dagli anni Sessanta hanno dimostrato comunque una stretta relazione tra ciò che mangiamo e come conduciamo la nostra vita. Il risultato del nostro benessere e della nostra salute nasce da un buon stile di vita e da una buona alimentazione Oggi sono senz’altro quei fattori che vengono sempre posti in evidenza per mantenere alto il nostro benessere ma non sono sufficienti perchè da un certo punto in poi si è capito che anche il contesto fosse estremamente importante. La teoria di Engel del modello biopsicosociale, modello che verrà poi ripreso anche nell’ambito psicoterapeutico, introduce altri fattori che non sono assolutamente riconducibili ai soli parametri biomedici, sui quali determinare se una persona sia malata oppure no. Un concetto importante è l’adattamento all’ambiente e quindi la malattia può essere la risultanza anche di un cattivo adattamento ambientale dovuto alle vicissitudini che tale ambiente produce e che preme nei confronti del soggetto. Quindi non dobbiamo esclusivamente ricondurre la nostra azione riparatrice basandoci sui parametri biomedici perchè questi da soli non danno conto di una realtà complessa che preme sul soggetto e i percorsi di cura devono essere in grado di intervenire su vari aspetti della malattia. Oltre alla malattia bisogna comprendere il malato. Ecco che entra in gioco un concetto importante di stress relativo; una determinata situazione può essere stressogena per alcuni individui e non per altri. I problemi di vita possono essere semplici problemi per alcuni ma per altri possono diventare condizioni di malattia. Engel introduce anche il concetto di reazione emotiva perchè ovviamente non ci sono solo i sintomi somatici ma anche le risposte emozionali ai fattori che hanno determinato alcuni scostamenti di parametro biomedico. Con il concetto di stress relativo ritorniamo al nostro famoso triangolo fatto di struttura, di psiche/emozioni e di parametri biochimici. La persona ha di fronte degli obiettivi e delle situazioni ma il modo con cui la reazione della persona si manifesta è estremamente soggettiva in relazione alle proprie risorse e a tutto ciò che l’individuo può fare per potenziare o regolare opportunamente le proprie risorse.

 

l benessere può essere influenzato semplicemente dal nostro stile di vita, dall’ambiente, dalla genetica e da un adeguato accesso alle cure. Avendo capito quali sono i fattori determinanti sulla nostra salute vediamo quali siano poi i parametri su cui si possano misurare gli effetti di ciò che succede in relazione al contesto. In relazione all’ individuo verso il contesto è la mente il nostro centro di controllo che deve lavorare come un’interfaccia da e per il contesto, elaborando tutta una serie di strategie per poter modulare la nostra risposta.

 

La mente, quindi, ha influenze sul sistema nervoso, sul sistema endocrino e sul sistema immunitario, ma non dobbiamo dimenticare che tutto questo si traduce in maniera più superficiale in tutto ciò che è memorizzato nel nostro tessuto connettivo e nella nostra risposta muscolare. In maniera molto semplice possiamo dire che le varie contratture di cui noi soffriamo magari quotidianamente dipendono dalle nostre preoccupazioni e dipendono da tutta una serie di fattori con cui noi dobbiamo interagire ma lo dobbiamo fare attraverso la nostra capacità raziocinante.

La PNEI – psiconeuroendocrinoimmunologia quindi, misurando gli effetti che dalla mente si ripercuotono sulla parte più neurofisiologica, certifica quanto siano importanti i legami tra questi due mondi e quindi l’unitarietà di mente corpo. Se torniamo al modello biopsicosociale tale unitarietà è un elemento fondamentale per poter intervenire efficacemente sull’equilibrio della persona.

 

E’ proprio muovendosi all’interno del modello biopsicosociale che è sorta successivamente questa nuova branca della ricerca in Neuroscienze e cioè la Psico Neuro Endocrino Immunologia – PNEI, considerata il tassello di evidenza scientifica cartesiana per spiegare il paradigma psicosomatico o del “Modello Mente/Corpo”.

 

La Psicosomatica, infatti, di cui oggi si parla spesso ma senza fornirne una connotazione precisa, può essere a sua volta il vero termine di riferimento, punto di partenza e punto di arrivo di quanto realizzato fino ad ora nell’ambito della connessione Mente-Corpo. La “materia” psicosomatica è infatti campo di esplorazione tutt’ora aperto, dove la persona è indagata come un universo complesso di fattori interni ed esterni, in continua interazione.

 

La medicina ufficiale, attraverso la PNEI – Psico Neuro Endocrino Immunologia e ancora prima attraverso la Psicobiologia (E. Rossi, 1982), sta muovendo i primi importanti passi nel considerare tutti questi fattori interagenti affermando scientificamente che esiste una connessione stretta tra pensiero-emozioni e corpo.

Le neuroscienze hanno ad oggi dimostrato l’esistenza di 2 forme di autoconsapevolezza: parlare della propria esperienza o riviverla? (fare un «selfie» oppure godersi il momento …?)

  • Autoconsapevolezza che tiene traccia del sé nel tempo. Sé autobiografico che collega le esperienze e le integra, tramite il linguaggio, in storie coerenti. Racconto pubblico, esteriore. Cervello razionale. Sé del Linguaggio.
  • Autoconsapevolezza che coglie il sé nel momento presente, basata sulle sensazioni fisiche che, se ci danno sicurezza, ci permettono di trovare le parole per comunicare l’esperienza vissuta. Esperienza interna, vissuto profondo, proiettato c/o il corpo in Comunicazione Non Verbale, postura, movimento, …. Insomma, il Cervello emotivo o Sé del Corpo.

Come dimostrato da Joseph LeDoux e colleghi (Emotion circuits in the brain, 2000, 2003), la sola via conscia di accesso al cervello emotivo è quella dell’autoconsapevolezza, attraverso, per esempio, l’attivazione della corteccia prefrontale mediale (MPFC). E’ la parte del cervello che osserva ciò che succede dentro di noi, permettendoci di «sentire» ciò che stiamo sentendo. Tutto questo è definibile come INTEROCEZIONE (dal latino «guardare dentro»).

 

Le neuroscienze hanno ormai dimostrato, grazie soprattutto agli studi recenti sulla Mindfulness, che un modo in cui è possibile modificare come ci sentiamo è nel divenire consapevoli della esperienza interiore, e lo si può fare attraverso le sensazioni del corpo. Richiamare l’esperienza vissuta significa riprodurre quello schema emotivo disfunzionale e poter intervenire attraverso tecniche che ne permettono la rielaborazione ricostituendo l’equilibrio delle due parti, razionale ed emotiva.

 

Le Neuroscienze ci insegnano che il senso di noi stessi è ancorato ai nostri corpi e a parti di essi, vere e proprie «isole di sicurezza» per radicarsi. Parti interne anche al di fuori della portata del nervo vago, che comanda principalmente petto, addome e gola, come mani, piedi, testa o altre parti (si vedano gli ancoraggi nella Mindfulness …)

Conoscere noi stessi è essere in grado di sentire e dare un senso alle nostre sensazioni fisiche; abbiamo il bisogno di rilevare il contesto e agire in base alle sensazioni. Scoprire le proprie «isole di sicurezza» porta a capire di poter modulare le sensazioni del corpo per bilanciare il sentimento di essere fuori controllo.

 

Se l’aspetto razionale conscio ci illude di guidare le nostre azioni, dobbiamo sempre tenere a mente che è tutt’altro che ci condiziona.

 

I numerosi studi e le ricerche nel campo della Psicobiologia prima e della PNEI – Psico Neuro Endocrino Immunologia poi, hanno permesso di comprendere come siano i sistemi cosiddetti “memoria stato-dipendente” del Sistema Limbico a costruire la nostra esperienza emotiva e di conseguenza i nostri modelli automatici di risposta relazionale.

 

Dagli studi sugli effetti neurovegetativi dello stress del Dott. Hans Selye negli anni ’40, siamo arrivati alle ricerche sull’ipnosi e gli stati di coscienza di Franz Alexander prima e di Milton Erickson poi, per finire con tutte le recenti risultanze scientifiche derivanti dallo studio degli effetti del Training Autogeno e di tutte le pratiche meditative e di Mindfulness. Da tutto questo emerge chiaramente come la bi direzionalità corpo-mente e l’implicito emotivo siano il motore che struttura e guida la risposta relazionale della persona.  Il “pensare” ed il “sentire” sono condizioni di “ragione” ed “istinto” che continuamente devono contrapporsi per cercare di restare in equilibrio.

 

L’istinto, l’implicito, l’emozione parla prima di tutti i nostri pensieri, attraverso la comunicazione non verbale del cervello limbico, rudimentale ma veloce, costruito per farci sopravvivere prima di tutto fisicamente, mentre la ragione è fatta da ciò che poi possiamo razionalizzare, prodotta da una corteccia cerebrale sì giovane ed evoluta filogeneticamente ma lenta e riflessiva, inadatta per discriminare l’oggetto esterno da cui proteggersi ma utile per considerazioni più profonde restando al sicuro dai pericoli.

Immaginiamo nell’adulto il nostro cervello emotivo, il bambino sempre presente, come un radar sempre attivo che prima rileva gli ostacoli, i quali saranno successivamente decodificati dall’operatore superiore rappresentato dalla nostra corteccia. Secondo Damasio, l’esperienza interna è attentamente e costantemente monitorata dalle regioni sottocorticali (il Bambino o Proto-sé) nel rilevare qualsiasi input dal flusso ematico e dai nervi, provocando cambiamenti, senza contributo cosciente, nel corpo e nel cervello. Anche il sé cosciente partecipa al mantenimento dell’equilibrio interno: per mantenere il corpo al sicuro si ha bisogno di cogliere le sensazioni fisiche ed agire in base ad esse. Se abbiamo freddo mettiamo un maglione, se abbiamo sete/fame agiamo di conseguenza…

«Le conseguenze delle emozioni e dell’attenzione sono intimamente legate al basilare compito di gestire la vita organica, e non è possibile gestire la vita e mantenerne l’equilibrio senza i dati sullo stato presente del corpo» (Damasio, Emozione e coscienza, 2000)

La tecnica della mental imagery è il processo di ricreazione mentale di un’ esperienza attraverso l’utilizzo di immagini e dei sensi. Studi neuroscientifici hanno mostrato che immaginare per esempio un movimento del proprio corpo attiva le stesse aree cerebrali deputate all’effettiva esecuzione del movimento. È stato inoltre riscontrato che abbinare al movimento concreto la tecnica del mental imagery migliora la performance sia in ambito sportivo che riabilitativo, ottenendo un effetto identico dal punto di vista funzionale. Possiamo quindi affermare che, grazie alle recenti ricerche sulle tecniche Mindfulness, immaginare sia per il ns cervello equivalente alla realtà.

 

Un’altra teoria che può fornire una spiegazione sugli effetti positivi della Mindfulness e delle positive ricadute sul livello di benessere e felicità personale sembra derivare dalla “Teoria della discrepanza del Sé e la genesi delle emozioni negative” (Higgins, 1987). Secondo questa teoria oscilliamo tra diverse rappresentazioni di noi stessi (il nostro sé), generando diverse sfumature emozionali:

  • Sé attuale – “Mi sento così” (la propria rappresentazione degli attributi che si ritiene che qualcuno, sè stesso o un altro soggetto significativo, crede che possediamo),
  • Sé ideale – “Se solo potessi essere come …” (la propria rappresentazione degli attributi che si ritiene che qualcuno, sè stesso o un altro soggetto significativo, crede che si dovrebbero idealmente possedere)”,
  • Sé normativo – “Almeno dovrei essere così …” (la rappresentazione degli attributi che si ritiene che qualcuno, sè stesso o un altro soggetto significativo, dovrebbero possedere)

Discrepanze tra:

  1. proprio Sé attuale e il proprio Sé ideale significano un’assenza di esiti positivi (a livello di rappresentazioni individuali), ed un vissuto legato all’abbattimento e alla depressione (disappunto, insoddisfazione, tristezza). Più nel dettaglio, discrepanze dal proprio Sé attuale con il proprio Sé ideale sviluppano emozioni legate alla frustrazione, al “non completo”; mentre una discrepanza tra il proprio Sé attuale con il Sé ideale dell’Altro significativo porta ad emozioni come vergogna e imbarazzo.
  2. proprio Sé attuale ed il proprio Sé normativo significa la presenza di vissuti negativi, legati a senso di colpa e disprezzo di sé. Discrepanze legate al proprio Sé normativo, portano a emozioni legate alla propria debolezza morale, alla propria mancanza di valore e indegnità. Discrepanze tra Sé attuale e Sé normativo costruito su aspetti sviluppati dall’altro generalizzato, porta ad emozioni legate alla paura o sensazione di essere minacciato.

 

I dati della ricerca scientifica hanno validato l’ipotesi che la pratica Mindfulness regolarizzasse le suddette discrepanze:

  • Crane e colleghi (2008) nel loro studio hanno osservato che i partecipanti a un training di Mindfulness di 8 settimane mostravano una minor discrepanza tra sé reale e ideale rispetto al gruppo di controllo.
  • Itzvan e colleghi (2011) osservarono risultati analoghi in persone che avevano partecipato a un weekend di Mindfulness.

La spiegazione di questi risultati risiederebbe nel fatto che dirigere l’attenzione al momento presente permetterebbe di ridurre la concentrazione sulla possibile discrepanza del Sé, riducendo così la quantità di tempo che dedichiamo infelicemente a confrontare il sé reale col sé ideale.

 

Negli ultimi anni si è registrato un aumento significativo del carico di lavoro, accompagnato da una crescente complessità delle dinamiche organizzative. I cambiamenti nei modelli produttivi, la pressione costante al raggiungimento degli obiettivi, la digitalizzazione e l’iperconnessione hanno trasformato radicalmente il modo di lavorare. Il tempo si contrae, le richieste aumentano, le pause si assottigliano e la disponibilità sembra dover essere continua.

In questo scenario, lo stress lavorativo è diventato una condizione sempre più pervasiva e normalizzata. La rilevanza di questo fenomeno non riguarda solo la salute psicofisica del singolo lavoratore, ma si estende all’intero sistema organizzativo. Gli effetti dello stress in ambito lavorativo si manifestano su più livelli: da un lato, generano disagi individuali come ansia, insonnia, irritabilità, fino a condizioni più strutturate come burnout e depressione; dall’altro, impattano direttamente su dinamiche aziendali, portando a fenomeni come l’assenteismo, il turnover, la riduzione della produttività e il deterioramento del clima interno.

Come confermato anche in una recente rassegna della letteratura scientifica di Menardo et al. (2022), lo stress legato al lavoro produce pertanto conseguenze tangibili sia per i soggetti singoli che per le organizzazioni. Per affrontarlo, si distinguono generalmente due tipi di intervento: gli interventi individuali mirano a rafforzare la capacità delle persone di fronteggiare lo stress, promuovendo strategie di coping e di resilienza personale, con l’obiettivo di modificare il modo in cui viene percepito e vissuto il potenziale stressor; gli interventi organizzativi, invece, agiscono sulle cause strutturali dello stress, modificando i fattori legati al contenuto del lavoro e al contesto in cui viene svolto, e richiedono una revisione più ampia delle dinamiche e della cultura aziendale (Menardo et al., 2022).

In entrambi i casi, ciò che si cerca è un cambiamento nella relazione con l’esperienza lavorativa: una diversa qualità dell’attenzione, una maggiore capacità di auto-regolazione, un modo più consapevole di stare dentro le pressioni quotidiane. È proprio in questa direzione che la mindfulness si rivela uno strumento potente e trasformativo.

In un contesto professionale sempre più orientato alla velocità, alla performance e al multitasking, la mindfulness si configura come una pausa intenzionale, uno spazio di consapevolezza all’interno della frenesia operativa. È un momento in cui l’attenzione si ancora al presente, sottraendosi alla frammentazione mentale generata da stimoli continui e richieste simultanee. In questa pausa, l’esperienza lavorativa può essere osservata con maggiore lucidità, e il rapporto con lo stress può cominciare a trasformarsi.

La mindfulness non interviene sulle variabili esterne come il carico di lavoro, le scadenze, i conflitti, ma sulla modalità con cui ci si relaziona a questi elementi. Invece di reagire automaticamente agli stimoli, si coltiva una risposta più consapevole, fondata sull’osservazione, la regolazione emotiva e la sospensione del giudizio. Questo cambiamento, all’apparenza sottile, produce effetti profondi sul benessere individuale e sulle dinamiche relazionali e organizzative.

Numerosi studi scientifici confermano che praticare regolarmente la mindfulness contribuisce in modo significativo alla riduzione dello stress percepito, al miglioramento dell’equilibrio emotivo e all’aumento della resilienza psicologica. Grazie alla mindfulness emerge una grande trasformazione soggettiva: il lavoratore mindful non è solo più calmo o rilassato, ma è più presente, concentrato, in grado di abitare il proprio ruolo con maggiore consapevolezza.

Un esempio concreto di efficacia della mindfulness in ambito lavorativo proviene da uno studio condotto da Yang, Tang & Zhou (2018), in cui un gruppo di infermieri psichiatrici è stato coinvolto in un intervento basato sul protocollo MBSR (Mindfulness-Based Stress Reduction). I risultati hanno evidenziato che, al termine del percorso, i partecipanti che avevano praticato mindfulness mostravano un miglioramento significativo della salute mentale generale, accompagnato da una riduzione dei livelli di ansia, depressione e stress lavorativo (Yang, Tang & Zhou, 2018).

Questo dato conferma come la mindfulness possa rappresentare uno strumento efficace anche in contesti professionali altamente complessi, promuovendo non solo un maggiore equilibrio psicologico individuale, ma anche una maggiore sostenibilità del lavoro stesso.

In ambienti ad alto impatto emotivo, la capacità di portare attenzione al momento presente si traduce in una maggiore stabilità interna e in una miglior gestione delle dinamiche quotidiane.

La mindfulness consente di riconoscere tempestivamente i segnali di sovraccarico e di prendere decisioni con maggiore chiarezza, anche in situazioni complesse.

Questa capacità è particolarmente preziosa in ambienti ad alta pressione, dove la reattività emotiva e la fretta decisionale possono compromettere tanto l’efficacia quanto le relazioni.

Coltivare la presenza mentale significa anche affinare l’ascolto, sviluppare empatia e ridurre i conflitti interpersonali, rendendo il contesto lavorativo più collaborativo e sostenibile.

Un ulteriore punto di forza della mindfulness è la sua adattabilità al contesto professionale, in quanto non richiede condizioni particolari, né tempi lunghi. È un modo diverso di essere presenti, che non implica rallentare il lavoro, ma lavorare con maggiore lucidità e connessione.

Non si tratta, dunque, di “fare mindfulness” come un’attività in più nella lista delle cose da svolgere, ma di portare una qualità mindful nel fare: attenzione, intenzionalità, apertura. Questo approccio, se sostenuto nel tempo, genera un cambiamento nella cultura lavorativa, promuovendo ambienti più consapevoli, etici e orientati alla cura, non solo alla prestazione.

 

– Yang, J., Tang, S., & Zhou, W. (2018). Effect of Mindfulness-Based Stress Reduction Therapy on Work Stress and Mental Health of Psychiatric Nurses. Psychiatria Danubina, 30(2), 189–196. 

https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/29930229/

 – Menardo, E., Di Marco, D., Ramos, S., Brondino, M., Arenas, A., Costa, P., Vaz de Carvalho, C., & Pasini, M. (2022). Nature and Mindfulness to Cope with Work- Related Stress: A Narrative Review. International Journal of Environmental Research and Public Health, 19(10), https://doi.org/10.3390/ijerph19105948


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